Occupazione via del Leone, da un’idea del collettivo ARK, presenta:
Il tetto, V. De Sica, Italia 1956.
Il tetto, V. De Sica, Italia 1956.
Un paese messo in ginocchio, annientato, ferito, ucciso da irresponsabili e raso al suolo dai suoi abitanti, cerca di rialzarsi a fatica. Lentamente si rinasce, la vita va avanti, torna un debole sorriso.
Fra detriti che ancora urlano disperazione, si costruiscono palazzi destinati a non si sa chi. A chi ha i soldi, si presume. Gli altri che si arrangino. Il sogno di un futuro migliore ha l’odore di frigoriferi che sostituiscono il ghiaccio comprato a peso, la televisione parla e mostra immagini delle vetrine dei rivenditori, ma è ancora un miraggio, così come le poche utilitarie in giro per le strade.
Nel 1955, perché per realizzare progetti ci vuole un po’ di tempo, Cesare Zavattini propone a Vittorio De Sica un suo soggetto. Il regista lo accetta con entusiasmo. Tira fuori dal portafogli quello che serve, presumibilmente non molto, e dà carta bianca al suo grande scrittore di sempre.
La cinepresa insegue i suoi personaggi quasi con rassegnata compassione, ma a tratti lo sguardo diventa freddo, quasi avesse smesso di crederci. La realtà del tempo è volutamente ignorata. Luisa e Natale, giovanissimi sposi, vivono in situazioni ai limiti dell’assurdo, e optano dopo qualche improbabile tentativo di affittare un appartamento, per la costruzione di una baracca laddove
di baraccati ce ne sono già a migliaia. E la baracca deve essere costruita in una notte perché c’è una specie di legge non scritta che tutela chi ce la
fa a finirla in poche ore. Tetto compreso.
La tematica è forte ma stempera coi toni del neorealismo rosa l’inadeguatezza di un governo impotente che tenta di far fronte ipocritamente a problemi che non sa o non vuole risolvere.
Tra i film che meglio restituiscono questo paesaggio urbano, “Il tetto” è il
candidato perfetto per tradurre iconograficamente il valore semantico
dell’abitare in tantx.
Buon Viaggio!
Fra detriti che ancora urlano disperazione, si costruiscono palazzi destinati a non si sa chi. A chi ha i soldi, si presume. Gli altri che si arrangino. Il sogno di un futuro migliore ha l’odore di frigoriferi che sostituiscono il ghiaccio comprato a peso, la televisione parla e mostra immagini delle vetrine dei rivenditori, ma è ancora un miraggio, così come le poche utilitarie in giro per le strade.
Nel 1955, perché per realizzare progetti ci vuole un po’ di tempo, Cesare Zavattini propone a Vittorio De Sica un suo soggetto. Il regista lo accetta con entusiasmo. Tira fuori dal portafogli quello che serve, presumibilmente non molto, e dà carta bianca al suo grande scrittore di sempre.
La cinepresa insegue i suoi personaggi quasi con rassegnata compassione, ma a tratti lo sguardo diventa freddo, quasi avesse smesso di crederci. La realtà del tempo è volutamente ignorata. Luisa e Natale, giovanissimi sposi, vivono in situazioni ai limiti dell’assurdo, e optano dopo qualche improbabile tentativo di affittare un appartamento, per la costruzione di una baracca laddove
di baraccati ce ne sono già a migliaia. E la baracca deve essere costruita in una notte perché c’è una specie di legge non scritta che tutela chi ce la
fa a finirla in poche ore. Tetto compreso.
La tematica è forte ma stempera coi toni del neorealismo rosa l’inadeguatezza di un governo impotente che tenta di far fronte ipocritamente a problemi che non sa o non vuole risolvere.
Tra i film che meglio restituiscono questo paesaggio urbano, “Il tetto” è il
candidato perfetto per tradurre iconograficamente il valore semantico
dell’abitare in tantx.
Buon Viaggio!